Sono 20, tutti bellissimi, e ci hanno fatto emozionare lungo tutto questo 2024 di grande cinema. Si parte con “The Holdovers”, di Alexander Payne, passando poi per il pluripremiato “Povere Creature!” e il superlativo “Dune – parte 2”. Non potevano mancare “Inside Out 2”, “Deadpool & Wolverine”, “Parthenope” di Paolo Sorrentino, “Oceania 2”, “Diamanti” di Ozpetek e il bellissimo “Mufasa: Il Re Leone”. Cosa aspettate allora? Scorrete tutta la lista e poi fateci sapere cosa ne pensate.
I 20 film più belli del 2024
The Holdovers – Lezioni di vita, di Alexander Payne
TRAMA
A nessuno piace l’insegnante Paul Hunham (Paul Giamatti), né ai suoi studenti, né ai suoi compagni di facoltà, né al preside, che trova la sua pomposità e rigidità esasperanti. Senza famiglia e senza un posto dove andare durante le vacanze di Natale del 1970, Paul rimane a scuola per supervisionare gli studenti impossibilitati a tornare a casa. Dopo pochi giorni, rimane solo uno studente: un quindicenne che crea problemi di nome Angus (Dominic Sessa), un bravo studente il cui cattivo comportamento minaccia sempre di farlo espellere. Insieme a Paul e Angus c’è la capocuoca Mary (Da’Vine Joy Randolph), una donna afroamericana il cui figlio è stato recentemente trovato morto in Vietnam. Queste tre persone molto diverse tra loro formano un’improbabile famiglia natalizia. Il vero viaggio è come si aiutano a vicenda a capire che non sono legati al proprio passato: possono scegliere il proprio futuro.
A 20 anni di distanza da “Sideways – In viaggio con Jack”, Payne ritrova l’immenso Paul Giamatti, regalandogli il ruolo della vita, quello del prof Paul Hunham, coltissimo e snob verso chi non lo è, severo, affetto da una malattia che gli fa emettere un odore sgradevole e con un occhio di vetro è la performance che lo ha consacrato tra le più grandi star di Hollywood di sempre, facendolo uscire dal cono d’ombra del semplice caratterista. L’interazione con Dominic Sessa e Da’Vine Joy Randolph è straordinaria e la loro alchimia fa si che la pellicola risulti ancora più emozionante e ritmicamente perfetta. Strizzando l’occhio a “L’attimo fuggente” e a “The Breakfast Club”, i personaggi “rimasti”( The Holdovers, appunto), di Payne si confrontano, rompono le loro barriere, si aprono al mondo e a loro stessi. La sceneggiatura di David Hemingson riesce a riportarci all’atmosfera di quegli anni, lasciando sullo sfondo la storia (Il Vietnam) e rimaneggiando il mood e il linguaggio dell’epoca riportandolo ai tempi moderni. Un lavoro immenso e non facile, che va a fondo in queste vite ai margini del tempo e dello spazio (e dove i soldi non contano), diverse tra loro ma alla fine così simili, con le proprie paure, ansie, complessi, un passato alle spalle mai elaborato, un presente difficile e, in alcuni casi, da nascondere per darla vinta alle convenzioni sociali.
Deadpool & Wolverine, di Shawn Levy
TRAMA
La pellicola è ambientata sei anni dopo gli eventi di “Deadpool 2”. Adesso, la TVA – Time Variance Authority con Mister Paradox, strappa l’irresponsabile eroe Deadpool dalla sua vita tranquilla e dai suoi cari amici, e lo mette in una missione con Wolverine che cambierà la storia del Marvel Cinematic Universe. Ne vedremo veramente di tutti i colori.
In una sola parola: geniale! Già dalla scena iniziale, sulle note di “Bye Bye Bye” degli *NSYNC, il regista Shawn Levy e Ryan Reynolds ci ricatapultano in quell’atmosfera irriverente, pazza, politicamente scorrettissima che ci mancava da morire. La quarta parete viene immediatamente disintegrata dai protagonisti che parlano, in tantissimi punti, direttamente al pubblico, e tutte le volte è uno sballo totale. Applausi a non finire, come al solito, agli sceneggiatori Rhett Reese, Paul Wernick e Zeb Wells che con Ryan Reynolds e Shawn Levy hanno messo su uno script zeppo di citazioni, dialoghi che spezzano qualsiasi tabù sessuale e riguardanti i vizi più deviati e “vietati” sul grande schermo, per la Disney soprattutto. Naturalmente, la parte più “scriteriata” spetta a Ryan Reynolds/Deadpool, che si autodefinisce il “Gesù della Marvel”, il Messia che deve salvare i propri amici e il proprio mondo (nonché il botteghino!), ma che prima tenta disperatamente di diventare un Avenger o farsi arruolare negli X-Men. Finirà, invece, a lavorare in una concessionaria di auto con l’amico e fan Peter (un fantastico Rob Delaney, attenzione a lui verso il finale!), fino a quando Mister Paradox (unico Matthew Macfadyen) della TVA non gli propone di andare a caccia di Wolverine in uno dei tanti Multiversi per cercare di mettere a posto proprio il suo mondo. La trama, a quel punto, diventa assolutamente inesistente, un mero pretesto per andare a ritroso nel meglio e nel peggio delle 34 pellicole dell’Universo Cinematografico Marvel, e soprattutto nelle varie performance del fenomenale Hugh Jackman/Wolverine, al quale viene affidata la parte un po’ più introspettiva e drama (ma molto blanda). Qualcosa nelle loro avventure andrà storto e, presto, i due si ritroveranno catapultati in un luogo desertico chiamato Il Vuoto, una dimensione parallela dove vengono esiliati quelli che hanno messo in pericolo la Sacra Linea Temporale. Qui, il regista e gli sceneggiatori daranno libero sfogo alla loro straordinaria e surreale linea creativa e vi faranno letteralmente impazzire. Camei assurdi di vecchie glorie dell’MCU, scene d’azione perfettamente coreografate e coinvolgenti, la presentazione della nuova “villain”, Cassandra Nova (Emma Corrin), potente e affascinante gemella di Charles Xavier e “guardiana” del Vuoto che dovrà impedire ai due eroi di fare ritorno al mondo “reale” e di rovinare i suoi piani diabolici. L’alchimia tra i due protagonisti è semplicemente perfetta. Hugh Jackman e Ryan Reynolds sono amici anche nella vita reale e si vede. Le loro performance, tra comicità e drama, sono le migliori degli ultimi 10 anni dell’MCU.
Inside Out 2, di Kelsey Mann
TRAMA
Le vocine nella testa di Riley la conoscono dentro e fuori, ma la prossima estate tutto cambierà. Inside Out 2 della Pixar ritorna nella mente dell’adolescente Riley, appena nata, mentre il quartier generale sta subendo un’improvvisa demolizione per fare spazio a qualcosa di completamente inaspettato: nuove emozioni! Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto, che da tempo conducono un’operazione di successo a detta di tutti, non sono sicuri di come sentirsi quando si presenta l’ansia. E sembra che non sia sola.
Ritroviamo Riley, la piccola protagonista che adesso ha 13 anni ed è quindi pronta (?) ad affrontare il periodo più complicato della nostra vita, quello dell’adolescenza. Nella sua mente ci sono sempre Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto ma arrivano anche altre emozioni come Invidia, Imbarazzo (ci fa impazzire!), Noia (Ennui) e, soprattutto, Ansia. Pete Docter in cabina di regia e la sceneggiatura di Meg Le Fauve ci offrono un mondo ancora più sfaccettato e magnetico, col contrasto tra i colori accessi della mente di Riley e quelli della realtà, molto più concreti, quelli di una San Francisco materica e quotidiana che fa da sfondo ai tentativi di Riley di entrare nella squadra di hockey e ai nuovi rapporti della ragazzina con gli amici e i genitori. L’universo delle emozioni di Riley si amplia così il film può esplorare in modo geniale le sue ansie, i desideri, i cambiamenti fisici, i problemi tipici della sua età, la formazione della sua stessa identità ma sempre in modo leggero, spensierato, dettagliato e mai pesante, anche se – come già saprete – il regista e la sceneggiatrice hanno lavorato a lungo con veri psicologi per assicurarsi di essere sempre veritieri e corretti. Si ride molto, si riflette e ci si lascia andare ai ricordi ed è sempre bello vedere nelle sale l’unanimità dei sorrisi di grandi e piccoli. Forse è proprio questo lo scopo primario del film, cioè unire diversi mondi e portarli sulla stessa lunghezza d’onda perché, in fondo, tutti abbiamo vissuto le stesse “paranoie” e le gioie di Riley.
Furiosa: A Mad Max Saga, di George Miller
TRAMA
Mentre il mondo va in rovina, la giovane Furiosa viene strappata dal Luogo Verde delle Molte Madri, e cade nelle mani di una grande Orda di Motociclisti guidata dal Signore della Guerra Dementus. Attraversando le Terre Desolate, si imbattono nella Cittadella presieduta da Immortan Joe. Mentre i due tiranni si battono per il predominio, Furiosa deve sopravvivere a molte prove e mettere insieme i mezzi per trovare la strada di casa.
Il regista ha sacrificato un tantino la confusione, la “svalvolatezza” del film precedente a favore dell’introspezione, della suspense, dei risvolti psicologici soprattutto relativi al personaggio principale. Questo non significa che in “Furiosa” non ci siano le scene action che tanto abbiamo amato in “Fury Road”, anzi, ce ne sono due o tre che vi faranno letteralmente saltare dalla sedia, ma la storia in sé è molto più profonda e narrativamente più complessa. La lotta per la sopravvivenza, per portare avanti la sua vendetta, porterà Furiosa a muoversi in un terreno minatissimo fatto di violenza, sopraffazione, guerre tra clan e personaggi surreali. Man mano, scopriremo come ha perso il braccio sinistro, come sarà cresciuta nelle Terre Perdute, ossia la Cittadella, Gas Town e Bullet Farm, dove impera Immortan Joe (Lachy Hulme) e dove, per fortuna, incontra Pretorian Jack (Tom Burke) che le insegnerà tutti i segreti della guida spericolata. Origin story o film di formazione, chiamiamolo come vogliamo, “Furiosa” si muove in una cornice narrativa abbastanza definita ma con le solite trovate geniali di quel visionario, meravigliosamente pazzo di Miller, realizzate sul grande schermo grazie al supporto degli effetti speciali di Andrew Jackson, rese stupende dalla fotografia da Oscar di Simon Duggan e dal lavoro mastodontico al montaggio di Margaret Sixel. Naturalmente, i costumi e il trucco (rispettivamente di Jenny Beavan e Lesley Vanderwalt)) sono fondamentali per la riuscita della pellicola. Ci affascinano e colpiscono come quelli di “Fury Road”, selvaggi e tecnolgici allo stesso tempo, e le scenografie di Colin Gibson sono la ciliegina sulla torta di un progetto che ha avuto una gestazione lunghissima ma, a questo punto, anche giusta e ponderatissima. Alyla Browne ci ha colpito profondamente nei panni di Furiosa da bambina mentre Anya Taylor-Joy passa a pieni voti la prova, senza far assolutamente rimpiangere Charlize Theron. La sua Furiosa è “cazzuta” e sensibile, forte, decisa, arrabbiata ma piena di sentimento (e non vi anticipiamo nulla in merito!) e, nelle due ore e mezza di durata, la sua trasformazione è semplicemente stupefacente. Dementus di Chris Hemsworth è la vera sorpresa della pellicola.
Dune – Parte Due, di Denis Villeneuve
TRAMA
“Dune – Parte Due” esplora il mitico viaggio di Paul Atreides che si unisce a Chani e ai Fremen sul sentiero della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte alla scelta tra l’amore della sua vita e il destino dell’universo conosciuto, Paul intraprende una missione per impedire un terribile futuro che solo lui è in grado di prevedere.
Il primo capitolo, “Dune”, del 2021, era solo un prologo a quello che avremmo visto nella Parte Due che è arrivata nei cinema come una tempesta di sabbia che sfiora la perfezione. Non vi preoccupate perché, a quei pochi che non avessero ancora visto la prima parte, Villeneuve ha pensato di offrire un breve riassunto iniziale per rinfrescarci la memoria, per poi mozzarci letteralmente il fiato con effetti speciali assurdi, esplorazioni narrative al fulmicotone e personaggi nuovi che sono come diamanti innestati in una corona già preziosissima. Ritroviamo, finalmente Paul Atreides (Timothée Chalamet) che ormai è sempre più il profetico messia annunciato dalle streghe, ossia l’eletto che libererà il popolo Fremen, quindi anche la sua amata Chani (Zendaya) e suo padre Stilgar (Javier Bardem) a capò della tribù. La sua anima è spaccata in due, tra caos e calma, tentazione e resilienza, mentre il regista ci porta alla scoperta del pianeta Arrakis, Limbo che sta per esplodere sotto i colpi della casata degli Harkonnen, guidata dal malvagio Barone Vladimir (Stellan Skargard) e dallo psicopatico Feyd-Rautha, fratello di Glossu Rabban (Dave Baustista), detto “la Bestia” e nipote del Barone. In questo contesto, s’inseriscono alla perfezione Christopher Walken nei panni del magnetico Shaddam IV, imperatore della Galassia appartenente alla casa Corinno; Florence Plugh in quelli della principessa Irulan Corrino, futura sposa di Paul Atreides e Lea Seydoux, misteriosa Lady Margot Fenring, moglie del conte Hasimir Fenring. Ma sui loro ruoli preferiamo non darvi nessuno spoiler! Last but not least, ritroviamo anche Lady Jessica, interpretata da Rebecca Ferguson: Bene Gesserit e madre di Paul; Gurney Halleck, interpretato da Josh Brolin, guerriero della Casa Atreides e mentore di Paul e Gaius Helen Mohiam (Charlotte Rampling), reverenda madre Bene Gesserit.
Povere creature!, di Yorgos Lanthimos
TRAMA
Oltre alle cicatrici che lo sfigurano e alle terribili menomazioni del suo fisico, Godwin Baxter (Willem Dafoe) deve a suo padre anche una sincera passione per il metodo scientifico e le pratiche chirurgiche. L’esperimento che più lo inorgoglisce è Bella Baxter (Emma Stone), che tratta come una figlia. L’ha trovata cadavere, incinta di un feto ancora vivo, e le ha ridato il respiro e trapiantato il cervello del neonato. Ora Bella, già cresciuta e splendida nel corpo, cresce rapidamente anche nelle facoltà mentali, imparando a camminare, parlare e, soprattutto, desiderare. A nulla vale, a questo punto, il tentativo del suo creatore di fermarla.
In questa surreale storia di una sorta di Frankenstein al femminile, il regista greco da sfogo a tutta la sua bravura e al suo caleidoscopio di emozioni, sensazioni, impressioni che passano dal bianco e nero al colore, che accompagnano la continua “evoluzione” di Bella da bambina ai primi passi fino all’emancipazione sociale e sessuale, mettendo al bando i pregiudizi. Bella Baxter parte dal basso, strappata alla morte dallo sfregiato Godwin che nella Londra vittoriana la riporta in vita e la dà in sposa a Max McCandles (Ramy Youssef), studente e suo collaboratore col quale Bella da sfogo alla sua sfera sessuale, fino a quando la “creatura” fugge con l’avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo). Con lui esplorerà ulteriormente la sua libido, in giro per l’Europa e per il mondo, anche a bordo di una lussuosa nave da crociera, diventando sempre più anticonvenzionale e diversa da tutte le donne in circolazione. Presto, i soldi finiranno e Bella finirà in un bordello. Da quel momento, la donna proverà sulla sua pelle che la storia è ciclica e sapremo molte più cose sul suo passato. Sarcastico, satirico, lunatico, funambolico, il film di Lanthimos abbandona qualsiasi convenzione cinematografica, allontanandosi anni luce da tutto quello che abbiamo visto al cinema negli ultimi 10 anni, e solo per questo già da premiare. Bella è inizialmente una bambina, per poi scoprire e sperimentare con forza il sesso e le sue sfaccettature, dimostrandosi una donna assolutamente libera, padrona del suo destino, a scapito di tutti gli uomini che vorrebbero “domarla” e dominarla.
Alien: Romulus
TRAMA
“Alien: Romulus” promette di riportare alle origini il franchise di grande successo Alien e racconterà la storia di un gruppo di giovani colonizzatori dello spazio che, rovistando nelle profondità di una stazione spaziale abbandonata, si imbatterà con la forma di vita più terrificante dell’universo
Fede Alvarez è riuscito a stupirci. Il regista di “Evil Dead” e “Don’t Breathe” ha mantenuto la sua promessa, non stravolgendo in alcun modo la saga (anzi, ci si ricollega in più punti) ma dando comunque la sua impronta, riportando l’horror senza effetto retrò, creando le giuste atmosfere claustrofobiche e angoscianti e non ricorrendo eccessivamente alla CGI. Un mix perfetto di tradizione e innovazione. La storia, molto semplice quanto avvincente, vede al centro della narrazione il giovane Rain Carradine (Cailee Spaeny), orfana che decide di dare una svolta alla sua vita difficile e quindi di trovare un pianeta dove poter vivere in pace. Accompagnata da Andy, un androide dal funzionamento indeciso, ereditato dai suoi genitori, e da altri amici – Tyler (Archie Renaux), Kay (Isabela Merced), Bjorn (Spike Fearn) e Navarro (Aileen Wu) – si ritroverà su un’enorme stazione spaziale alla deriva, la Romulus. Cos’è successo al suo equipaggio? Perché la navicella giace lì abbandonata e (apparentemente) vuota? Il gruppo si metterà ad esplorarla ma sarà proprio da quel momento che avranno a che fare con creature xenomorfe agguerrite e assetate di sangue. Alvarez, ponendo il capitolo come midquel, si lancia in mille riferimenti nostalgici ad altri film del franchise, infarcendo la sua pellicola con cameo eccellenti e sicuramente d’effetto. Ma attenzione, perché il regista cerca di evitare accuratamente il pericoloso effetto remake, inserendo elementi nuovissimi in un canovaccio già ben noto, spaziando tra tematiche che vanno dallo sfruttamento al capitalismo, all’ansia per il futuro delle nuove generazioni fino al concetto di trovare il proprio posto nel mondo.
Beetlejuice Beetlejuice, di Tim Burton
TRAMA
Michael Keaton riprende il ruolo dell’eccentrico e spettrale Beetlejuice, più pazzo che mai. Con quei suoi occhi da morto vivente e le sue movenze da burattino impazzito, è pronto a seminare il panico. Sono passati 35 anni da quando ha terrorizzato la famiglia Deetz, ma lui è sempre lo stesso burlone di una volta, pronto a tutto pur di conquistare il cuore di Lydia, l’unica che può vederlo. Ma questa volta c’è una novità: Lydia è cresciuta ed è diventata una medium famosa, ma la sua vita non è poi così rosea come sembra. Tra un’apparizione televisiva e l’altra, deve fare i conti con una madre matrigna insopportabile (sempre interpretata dalla bravissima Catherine O’Hara), con un fidanzato new age che la annoia a morte e con una figlia con tanti pensieri… Insomma, anche i fantasmi hanno i loro problemi!
Il primo Beetlejuice era un fulmine a ciel sereno, un mix esplosivo di grottesco e comicità che ci aveva lasciato a bocca aperta. Ma questo sequel? È un vero e proprio party dell’orrore, una festa a cui non vorresti mancare! Certo, il primo film aveva un suo charm un po’ grezzo, ma questo nuovo capitolo è tutto un altro livello. Dimenticate gli effetti speciali perfetti e le animazioni impeccabili: qui troviamo un’animazione più artigianale, quasi un omaggio al cinema di una volta, che dona al film un’atmosfera unica e genuina. È come se Burton avesse tirato fuori dal suo baule dei ricordi un sacco di giocattoli e li avesse usati per creare un mondo fantastico tutto suo. Ma non pensate che sia solo un film per nostalgici! Beetlejuice Beetlejuice è pieno di sorprese: un numero musicale esilarante con una torta verde fluo che ti lascia a bocca aperta, un omaggio ai film horror italiani anni ’60 che farà impazzire gli appassionati del genere, e una trama ricca di colpi di scena che ti tiene incollato alla poltrona. E poi c’è lui, Beetlejuice, più pazzo e divertente che mai. Il suo rapporto con Lydia è ancora più strano e affascinante, e i nuovi personaggi, come la sensuale Delores, aggiungono un tocco di follia in più. In definitiva, Beetlejuice Beetlejuice è un film che ti fa sorridere, riflettere e soprattutto, divertire.
Vermiglio, di Maura Delpero
TRAMA
Nell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, il 1944, un giovane soldato siciliano di nome Pietro porta il suo compagno ferito, Attilio, fino alla sua casa in montagna. Come nuovo arrivato in paese, Pietro è molto chiacchierato, ma resta in disparte. Ben presto Pietro e Lucia, figlia maggiore del severo maestro del villaggio, iniziano una relazione.
Il lungometraggio è stato presentato in anteprima il 2 settembre 2024, alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha poi vinto il Leone d’argento. È stato, poi, selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar del 2025 nella sezione del Miglior film internazionale ed è candidato ai Golden Globe nella sezione Miglior film in lingua straniera. Tutto meritato perché “Vermiglio” racconta la storia di Pietro e Lucia con una eleganza, una poesia e, allo stesso tempo, una forza incredibili. Maura Delpero l’ambienta nel 1944, sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, ma lo spazio e il tempo si annullano, per portarci in un contesto più intimo e personale, fatto di sofferenza e speranza. Grandiose la fotografia di Michail Kricman, le musiche di Matteo Franceschini e i costumi di Andrea Cavalletto.
Il Robot Selvaggio, di Chris Sanders
TRAMA
L’epica avventura segue il viaggio di un robot – l’unità ROZZUM 7134, abbreviato in “Roz” – che dopo un naufragio si ritrova su un’isola disabitata dove dovrà imparare ad adattarsi all’ostile ambiente circostante, costruendo gradualmente relazioni con gli altri animali. Precipitano dall’alto, Roz distrugge il nido di un pulcino e questi lo riconosce come sua mamma. Il pulcino d’oca sarà soprannominato Beccolustro e, alle loro avventure, si unirà anche la docile volpe Fink.
Noi di Cinefily amiamo follemente il romanzo di Peter Brown, quindi, eravamo molto curiosi di vederne la trasposizione cinematografica. Ebbene, Sanders ha fatto un lavoro straordinario che, sinceramente, non ci aspettavamo anche se i suoi film precedenti, “Lilo & Stitch”, “Dragon Trainer” e “I Croods” sono bellissimi e pluripremiati. Il regista ha unito la computer grafica ad un’animazione acquarellata, impressionista, quasi come quella dei fantastici prodotti dello Studio Ghibli, ma resa in maniera più moderna e contemporanea. I character designers Peter DeSève, John Norton e Heidi Smith hanno fatto un lavoro incredibile, di grandissimo impatto visivo, fatto di un mix di tradizione e avanguardia che, a nostra memoria, non ha precedenti e che, al 99%, è già in odore di Oscar. Sanders ha curato anche la sceneggiatura che risulta molto aderente al racconto originario ma in una chiave contemporanea, mescolando commedia, dramma e fantascienza, facendo risultare la pellicola una favola ecologista.
The Substance, Coralie Fargeat
TRAMA
Hai mai sognato una versione migliore di te? Sei sempre tu. Semplicemente, migliore, in ogni senso. Davvero. Devi provare questo prodotto rivoluzionario. Si chiama “The Substance”. Ti cambia la vita. Genera una nuova versione di te. Una versione più giovane, più bella, una versione perfetta. C’è solo una regola: vi dovete dividere il tempo. Una settimana sta alla vecchia versione di te. Quella dopo sta alla nuova. Sette giorni a testa. Un equilibrio perfetto. Facile, no? Se rispetti l’equilibrio… cosa può andare storto?
Demi Moore offre una delle sue performance migliori nei panni di Elisabeth Sparkle, attrice di Hollywood dimenticata che viene licenziata anche dalla trasmissione di aerobica che conduceva da anni proprio nel giorno del suo 50esimo compleanno. Si rende conto che l’invecchiamento nel suo mondo non è contemplato e quindi accetta di usare un misterioso siero di ringiovanimento procuratole da una dottoressa dopo che l’ex star si ritrova in ospedale per un incidente stradale. Da quel momento ha inizio la “partenogenesi”, ossia dal corpo di Elisabeth emerge la 20enne Sue che si alternerà all’attrice: mentre una è attiva nel mondo per una settimana, l’altra è in uno stato di ibernazione che permette di rigenerare le cellule, e così via. Presto, però, la rivalità e la dipendenza da quel nuovo stile di vita diventano predominanti e la voglia di rimanere sempre giovani diventa presto mostruosità. Qualora l’aveste perso, beh recuperatelo subito.
Parthenope, di Paolo Sorrentino
Trama
Il film racconta il lungo viaggio della vita di Parthenope, dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Non è una sirena, né un mito. E’ un’epica del femminile senza eroismi, abitata dalla passione inesorabile per la libertà, per Napoli e gli imprevedibili volti dell’amore. I veri, gli inutili e quelli indicibili, che ti condannano al dolore. E poi ti fanno ricominciare. La perfetta estate di Capri, da ragazzi, avvolta nella spensieratezza. E l’agguato della fine. Le giovinezze hanno questo in comune: la brevità. E poi tutti gli altri. I napoletani, vissuti, osservati, amati, uomini e donne, disillusi e vitali. Le loro derive malinconiche, le ironie tragiche, gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza di poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro. Sa essere lunghissima la vita, memorabile o ordinaria.
Sorrentino apre il suo decimo film con la celebre frase di Celine: “Com’è enorme la vita, ci si perde dappertutto” ed è proprio così che si può sintetizzare il percorso della sua Parthenope, interpretata da Celeste Dalla Porta, al suo esordio (col botto) sul grande schermo. La sirena nata nelle acque della sua Napoli racconterà la sua storia che va dal 1950 a 2023 e lo farà in modo epico e sentimentale, portando avanti un’idea di libertà totalizzante. In parallelo, si sviluppa il rapporto di amore e odio con la città, Napoli, fatta di mille contraddizioni, dove lo scorrere del tempo sembra apparentemente rallentare, per poi travolgerti inesorabilmente. Il regista riabbraccia lo stile de “La grande bellezza” con lunghi primi piani su personaggi stilizzati, immobili a guardare nel vuoto o con lo sguardo fisso in camera, con poetici piani sequenza e l’uso magistrale del rallenty e dei droni. Parthenope è il fulcro della narrazione. E’ una giovane seducente e magnetica che incontra vari (e strani) personaggi, quasi una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie che studia antropologia con il coltissimo professor Devoto Marotta (Silvio Orlando), che s’inebria con le letture dello scrittore (alcolizzato) John Cheever (Gary Oldman), che s’imbatte nell’agente delle dive Flora Malva (Isabella Ferrari), nell’ex diva Greta Cool (Luisa Ranieri), nell’armatore ed ex deputato Alfonso Santagata (Achille Lauro) fino al vescovo Tesorone (Peppe Lanzetta). Il regista non si fa imbrigliare dagli stereotipi (camorra, colera, scudetto, farabutti) anzi, da ognuno di questi personaggi e dall’ambiente circostante Parthenope imparerà sempre qualcosa mentre ci fa vivere con lei – e tutta la sua anima – una spensierata estate degli anni ’70, con gli amori malinconici e passionali (Sandrino e Armando), affrontando poi anche tragedie e delusioni forti.
Tra la giovinezza e l’età adulta passeranno tanti anni ma in un lampo. Parthenope sparirà dal suo mare nel 1983 per poi ricomparire 40 anni dopo, col volto della meravigliosa Stefania Sandrelli. Disillusa, un po’ stanca, ma ancora bellissima ed emozionante come la canzone di Riccardo Cocciante, “Era già tutto previsto”, pezzo portante del film, struggente e potente, in bilico tra memoria e malinconia, tristezza e speranza. Forse era veramente già tutto previsto si, ma la Parthenope adulta accetta che “la vita sia andata così” e che il tempo non si può fermare, la sua inesorabilità ci travolge come un’onda e ci sconvolge come un terremoto. Rimpianti? Si, ma quella vita valeva la pena di essere vissuta (magari con qualche dispiacere in meno) però alla fine la sua malinconia diventa paradossalmente la sua stessa forza e dai suoi errori riesce ad imparare tutte le cose fondamentali, eccetto forse il fatto di fare pace totalmente col suo passato.
Il Gladiatore 2, di Ridley Scott
TRAMA
200 d.C. Sono passati 20 anni dalla morte di Massimo Decimo Meridio. Adesso, il giovane Lucio, nipote di Marco Aurelio e figlio di Lucilla, viene ridotto in schiavitù in seguito alla conquista della Numidia, dove viveva con la moglie e il figlio, ad opera delle centurie di Marco Acacio. Ispirandosi a Massimo, Lucio decide di combattere come gladiatore e sfidare il potere degli imperatori Caracalla e Geta.
Ridley Scott con “Il Gladiatore 2”, sfidando tutti i pregiudizi e le aspettative, è riuscito a portare sul grande schermo una pellicola assolutamente spettacolare che, naturalmente, essendo sequel diretto della pellicola del 2000, è speculare ma evita il pericoloso “copia e incolla”. Il primo capitolo vedeva Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe) avere la meglio sui Marcomanni mentre il secondo si apre con l’assedio della Numidia da parte di Acacio (Pedro Pascal), mentre il comandante Annone/Lucio viene deportato a Roma come uno schiavo, assieme alle sue truppe. Da schiavo a super gladiatore il passo è breve. Paul Mescal incarna alla perfezione la figura del nuovo eroe di Scott, mosso da rancore, accecato dalla rabbia, carismatico e intelligente, contrapposto all’idiozia politica degli imperatori gemelli Geta e Caracalla (bravissimi Joseph Quinn e Fred Hechinger). Bisogna inchinarsi, per l’ennesima volta, davanti alla performance di Denzel Washington che da vita ad un eccezionale, doppiogiochista e machiavellico Macrino che, da semplice “impresario” di gladiatori, riesce ad arrivare al potere con una crudeltà inaudita. Magnetico, serafico, “simpatico” (si, anche simpatico!), spietato e calcolatore, con il Generale Acacio di Pedro Pascal, sono decisamente i due personaggi più riusciti. Lo sceneggiatore David Scarpa, stavolta, allarga gli orizzonti della vendetta di Lucio, rende il tutto più corale, politicamente e socialmente impattante, con colpi di scena affidati proprio ai personaggi comprimari Macrino e Acacio, riservando a Lucilla/Connie Nielsen il ruolo di ago della bilancia e spartiacque tra la politica corrotta e quella che spera ancora che la giustizia torni a trionfare. Mescal e Crowe sono facce della stessa medaglia e le loro storie combaciano fino a un certo punto, per poi prendere direzioni diverse. Attenzione, tutto questo avviene mentre siamo letteralmente bombardati da effetti visivi strabilianti, realizzati dai geniacci della Industrial Light & Magic e da altri studi altrettanto fenomenali, che a nostro avviso, superano di gran lunga quelli del primo film. Gli perdoniamo anche il gladiatore in piedi sul rinoceronte, le scimmie mannare e gli squali al Colosseo, perché Sir Ridley Scott è il re delle battaglie esagerate ma visivamente impeccabili e stracult.
Wicked, di Jon M. Chu
TRAMA
Il film si svolge nel Regno di Oz, anni prima dell’arrivo di Dorothy Gale. Elphaba (Cynthia Erivo) e Glinda (Ariana Grande), sono due giovani aspiranti streghe appena entrate nella prestigiosa università di stregoneria. Elphaba ha la carnagione verde e Glinda è bionda e angelica. Destinate a diventare rispettivamente, la Strega Cattiva dell’Ovest e la Strega Buona del Sud, le due giovani studentesse diventano grandi amiche. La loro è un’amicizia ostacolata dagli schemi corrotti del Regno, ma nonostante qualche screzio, Elphaba e Glinda rimangono unite. Quando Elphaba viene invitata nel palazzo del Mago di Oz (Jeff Goldblum), porta con sé la sua migliore amica.
E’ da un po’ di tempo che al cinema non si vedeva un musical con la M maiuscola (ehmm, no “Joker: Folie à Deux” non è pervenuto) e, finalmente, Jon M. Chu ha compiuto l’impresa. Il regista si è mantenuto alquanto fedele alla celeberrima versione teatrale di Stephen Schwartz, ma la sua versione cinematografica è assolutamente magica, spettacolare e visivamente eccezionale. Senza girarci troppo intorno, i punti di forza fondamentali sono le due protagoniste Ariana Grande e Cynthia Erivo, ovvero le future Strega Buona del Sud e la malvagia Strega dell’Ovest de Il Mago di Oz. Grandissima potenza vocale, presenza scenica al top, una Ariana Grande sorprendente anche nei panni di attrice e la Erivo che si appresta a portare a casa (speriamo) importanti nomination in giro per le varie kermesse cinematografiche dei prossimi mesi. Beh, poi che dire della colonna sonora? E’ uno degli aspetti che ha maggiormente contribuito al suo successo anche a teatro con brani memorabili come Defying Gravity, For Good e Popular, pezzi potenti ed emotivamente carichi che vanno dal dinamico e energico al profondo e riflessivo. Defying Gravity, in particolare, è uno dei momenti più iconici del film, simbolo della liberazione e della forza di Elphaba nel rivendicare la sua identità. La sceneggiatura, scritta proprio da Winnie Holzman e Stephen Schwartz, lascia brillare anche altri personaggi come il premio Oscar Michelle Yeoh che interpreta il ruolo di Madame Morrible; l’amatissimo Jonathan Bailey, qui nei panni di un riuscitissimo Fiyero Tigelaar e poi il grande Jeff Goldblum, nel ruolo dell’enigmatico e affascinante Mago di Oz. Nessuno rimane nell’ombra, tutti sono utili alla trama e danno il loro contributo all’intreccio, evitando l’appiattimento o il didascalismo che nei musical sono sempre pericolosamente dietro l’angolo.
Napoli-New York, di Gabriele Salvatores
TRAMA
Nell’immediato dopoguerra, tra le macerie di una Napoli piegata dalla miseria, i piccoli Carmine (Antonio Guerra) e Celestina (Dea Lanzaro), di 12 e 9 anni, tentano di sopravvivere come possono, aiutandosi a vicenda. Una notte, s’imbarcano come clandestini su una nave diretta a New York per andare a vivere con la sorella di Celestina, Agnese (Anna Lucia Pierro), emigrata anni prima. I due bambini si uniscono ai tanti emigranti italiani in cerca di fortuna in America, aiutati dal cuoco George (Omar Benson Miller) e dal capitano Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino) e sbarcano in una metropoli sconosciuta, che dopo numerose peripezie, impareranno a chiamare casa.
“Napoli-New York” è, infatti, un dramma che esplora l’emigrazione, l’identità e la ricerca di sé stessi. Con uno stile che mescola elementi di road movie, film di formazione e dramma familiare, prende spunto da esperienze reali di emigrazione italiane, in particolare quelle napoletane. La pellicola si sviluppa su più piani narrativi, infatti, da un lato racconta la voglia di integrarsi in una società estranea, dall’altro esplora il legame emotivo e culturale tra Napoli e New York, due città che rappresentano poli opposti ma legati da un profondo filo rosso di esperienze condivise tra gli emigranti. Il viaggio, i bambini, la formazione personale, sono temi carissimi al regista e grazie a questo film li esplora in maniera magistrale. I piccoli protagonisti rappresentano tutti gli italiani che sono andati negli USA senza tornare più nel nostro Paese. Salvatores, con la sua regia, riesce a cogliere l’intensità emotiva del film, utilizzando un linguaggio visivo semplice ma efficace, talvolta anche molto divertente, proprio come quello del cinema di una volta. Se pensiamo che la storia è stata scritta da Fellini e Pinelli alla fine degli anni ’40, quando non era ancora stato negli USA, allora tutto diventa quasi una favola di formazione, divisa tra magia e neorealismo. Il regista ha cercato, per quanto possibile, di tenersi il più possibile fedele allo script originale (composto da 80 pagine), per rispettare ovviamente i due grandi che l’hanno scritta e perché andava già bene così, apportando solo alcune modifiche nel finale. Salvatores ha ricostruito New York a Cinecittà, nel Teatro 5 (con molti effetti speciali eh), girando anche a Napoli, Trieste e Fiume e riuscendo a ricreare quel periodo storico in maniera talmente reale da lasciarci a bocca aperta.
Oceania 2, di Dave G. Derrick Jr., Jason Hand e Dana Ledoux Miller
TRAMA
Oceania 2 riunisce Vaiana e Maui, dopo tre anni, per un nuovo grande viaggio insieme a un gruppo di improbabili navigatori. Dopo aver ricevuto un inaspettato richiamo dai suoi antenati, Vaiana deve viaggiare verso i lontani mari dell’Oceania e in acque pericolose e dimenticate per un’avventura diversa da qualsiasi cosa abbia mai affrontato.
A otto anni di distanza dal primo capitolo, i registi Dave G. Derrick Jr., Jason Hand e Dana Ledoux Miller hanno realizzato una pellicola davvero sensazionale. Sequel diretto del film del 2016, il film ci fa ritrovare immediatamente la continuità con la storia, i personaggi, i colori e la protagonista Vaiana, ormai più matura e non più ragazzina alla ricerca di sé stessa. La sceneggiatura ci permette di scoprire tutti i punti rimasti in sospeso dal capitolo precedente ma, come dicevamo, adesso Vaiana è una sorta di leader, una guida per il popolo dei Motunui e lei non vuole di certo deluderlo. A differenza di tutte le altre principesse Disney, Vaiana è coraggiosa, forte, introspettiva, ma ha anche dei lati dolci e sensibili che la rendono il personaggio perfetto da amara incondizionatamente, sia dai grandi che dai più piccoli, e il proseguimento della sua storia ci magnetizza dall’inizio alla fine anche stavolta. La sua avventura, stavolta, la porterà sulla via degli antenati per salvare, appunto, il suo popolo da una minaccia molto concreta e pericolosa, accompagnata dal fidato Maui (stranamente, però, in questo secondo film ha meno spazio) e da un’esilarante compagnia formata dal cantastorie Moni (uno dei personaggi più riusciti), l’inventrice Loto, il vecchio contadino Kele, il meraviglioso galletto Hei-Hei (il nostro preferito), il maialino Pua e il nuovo e misterioso personaggio di Matangi (doppiato dalla cantante Giorgia), tutti uniti contro il cattivone Nalo. Questi comprimari, però, potevano essere delineati decisamente meglio, ma si spera in un terzo capitolo (o spin-off?) in cui riusciremo a sapere qualcosa in più sul loro conto. La maggiore coralità è, comunque, un altro tratto da apprezzare, ma quello che colpisce maggiormente, più del primo film, è l’impianto visivo su cui la Disney non si è di certo risparmiata.
La Stanza Accanto, di Pedro Almodovar
TRAMA
Il film segue la storia di una madre imperfetta e di una figlia rancorosa, separate da un grave malinteso. Tra di loro, un’altra donna, Ingrid (Julianne Moore), amica della madre, è la custode del loro dolore e della loro amarezza. Martha, la madre (Tilda Swinton), è una reporter di guerra e Ingrid è una romanziera autobiografica. Il film affronta la crudeltà infinita della guerra, i modi molto diversi in cui le due autrici femminili si avvicinano e scrivono della realtà, della morte, dell’amicizia e del piacere sessuale come i migliori alleati nella lotta contro l’orrore. Ma evoca anche i dolci risvegli con il cinguettio degli uccelli, in una casa costruita nel mezzo di una riserva naturale nel New England, dove le due amiche vivono in una estrema e stranamente amabile situazione.
Almodóvar colpisce ancora. Il 24° lungometraggio, già vincitore del Leone d’oro al Miglior film al Festival di Venezia, affronta temi a lui cari come la morte, l’amicizia, i rapporti “frantumati” tra le persone, la crisi creativa e esistenziale e anche l’eutanasia. Il regista spagnolo, però, lo fa sempre con la sua inconfondibile leggerezza, col suo tocco ironico che non stona mai anche nelle situazioni più drammatiche. Per farlo, ha scelto due premi Oscar, Tilda Swinton e Julianne Moore semplicemente straordinarie nei rispettivi ruoli. Riprendendo quasi alla lettera il libro “Attraverso la vita”, il regista si serve di Ingrid come simbolo per dar voce al fatto che tutti noi abbiamo bisogno della “condivisione”, che nessuno alla fine vuole stare da solo e di Martha per farci capire che si può andare oltre qualsiasi “rottura”, che non bisogna poi essere troppo integerrimi con gli altri e con noi stessi e che il “perdono” è sempre possibile, non solo in situazioni terminali. La parte maschile (la vecchia fiamma Turturro, il personal trainer e anche il poliziotto) non serve a nulla ed è schiacciata dai propri limiti o dal proprio ego. In nome del loro rapporto speciale, che non è mai morto ma messo in stand-by, le due amiche vanno avanti, si aiutano a vicenda e si parlano molto, in questa pellicola che ok è anche politica, ma alla fine è il sentimento che prevale, in mille sfaccettature e introspezioni, dove l’azione è ben poca. L’eutanasia è un tema sempre molto delicato da trattare nei film. In questo caso, che sia un concetto da vedere in maniera prettamente “politica” o meno, Almodovar lo tratta veramente alla grande, come semplice e “dignitosa fine”, senza catastrofismi o piagnistei e senza farne una questione di diritto contro cui nessuno si può opporre. La morte sarà annunciata dai cambiamenti climatici, da quella porta chiusa, e in questo la fotografia di Eduard Grau è fenomenale, come lo è per tutto il film, a riflettere gli stati d’animo delle due protagoniste.
Conclave, di Edward Berger
TRAMA
Il cardinale Thomas Lawrence (Ralph Fiennes) è incaricato di organizzare uno degli eventi più antichi e misteriosi della storia: selezionare il nuovo Papa dopo la morte di Gregorio XVII avvenuta per un attacco di cuore. I principali candidati sono Aldo Bellini, Joshua Adeyemi, Joseph Tremblaye e Goffredo Tedesco. Mentre è all’opera, Lawrence si ritroverà al centro di una cospirazione che potrebbe scuotere le fondamenta della Chiesa Cattolica Romana.
Si, ormai i cinefili più accaniti sapranno già che “Conclave” è stato candidato a 6 Golden Globe e si appresta a racimolare lo stesso bottino (se non in misura maggiore) ai prossimi Oscar. In effetti, Edward Berger (“Jack”, “Niente di nuovo sul fronte occidentale) dirige magistralmente questo thriller di ambientazione ecclesiastica (che ricorda un po’ l’atmosfera de “Il Codice Da Vinci”, lasciatecelo dire) fatto di intrighi, giochi di potere, tradimenti e rivelazioni che vi terrà incollati alla poltrona per tutti i 120 minuti e vi spiazzerà. Certo, parte un po’ lentino, ma dopo un’intro di qualche decina di minuti, ecco che Ralph Fiennes s’impadronisce della scena e il suo Cardinale Lawrence si pone alla guida del Conclave – da “cum clave”, chiusi a chiave, una pratica che ormai risale a circa 900 anni fa e che vede i cardinali riunirsi nella Cappella Sistina per scegliere il nuovo Papa, senza uscire mai – ipnotizzandoci con una delle sue migliori performance. Lawrence è l’uomo di fiducia del Papa che non c’è più e diventa il punto di riferimento di questo processo ma è anche una persona intrisa di dubbi, in piena crisi, che vorrebbe solamente ritirarsi, ma la sua ultima missione dev’essere quella di ago della bilancia, mediatore tra mille congetture, detrattori e personalità alquanto oscure.
Lawrence, con i suoi sguardi, la sua mimica, il suo linguaggio essenziale e serafico è il faro che deve illuminare la via, smascherando l’ipocrisia, l’ambizione e la presunzione di alcuni dei candidati. Tra quelli che lo circondano ci sono Il cardinale Goffredo Tedesco (Sergio Castellitto), il più reazionario e realista; gli enigmatici Joseph Tremblay (John Lithgow) e Joshua Adeyemi (Lucian Msamati), lo “sveglissimo” Aldo Bellini (Stanley Tucci) e Vincent Benitez (Carlos Diehz), cardinale che ha portato il suo supporto e la sua parole in luoghi di guerra e si è sempre esposto in prima persona. Quest’ultimo sostiene che il defunto Papa lo abbia segretamente nominato arcivescovo di Kabul, e ciò non fa altro che aumentare panico e dubbi negli altri cardinali. La parte femminile è rappresentata da Suor Agnes (interpretata da una grandiosa Isabella Rossellini) che, anche se sarà in scena per pochi minuti, avrà un ruolo chiave nella vicenda. Moderni e attivissimi, tutti sono messi in luce, nessuno fa da comparsa in questo gioco di potere perfettamente scritto dallo sceneggiatore Peter Straughan, che preferisce non discostarsi poi molto dal libro di Robert Harris. Attenzione, perché l’intento del regista e dello sceneggiatore non è quello di buttare fango sulla Chiesa ma è piuttosto una disanima del fatto che la corruzione si può infiltrare ovunque e che il bene e il male, alla fine, sono le facce della stessa medaglia. La scelta è sempre difficilissima perché “la retta via è ormai smarrita” e si tenta di ritrovarla nel buio più totale. Il conclave diventa un campo di battaglia che mette in mostra le complessità di tutti gli uomini – e poi cardinali – in un continuo scambio di opinioni sulla religione, sulla situazione politica e sulle loro stesse vite, con un ritmo incalzante e serrato, soprattutto nella seconda parte.
Diamanti, di Ferzan Ozpetek
TRAMA
Un regista convoca le sue attrici preferite, quelle con cui ha lavorato e quelle che ha amato. Vuole fare un film sulle donne ma non svela molto: le osserva, prende spunto, si fa ispirare, finché il suo immaginario non le catapulta in un’altra epoca, in un passato dove il rumore delle macchine da cucire riempie un luogo di lavoro gestito e popolato da donne, dove gli uomini hanno piccoli ruoli marginali e il cinema può essere raccontato da un altro punto di vista: quello del costume. Tra solitudini, passioni, ansie, mancanze strazianti e legami indissolubili, realtà e finzione si compenetrano, così come la vita delle attrici con quella dei personaggi, la competizione con la sorellanza, il visibile con l’invisibile.
A solo un anno di distanza dal non memorabile (diciamolo!) “Nuovo Olimpo”, Ferzan Ozpetek, finalmente, torna nelle sale con un film quasi tutto al femminile che ci fa respirare la sua vera essenza e il suo grande talento. Che siano le donne i suoi veri diamanti cinematografici da modellare, far splendere in scena regalandoci momenti davvero emozionante? In questa pellicola il regista ci porta nella Roma del 1974, precisamente nella Sartoria Canova, specializzata nella produzione di costumi splendidi e sontuosi per il cinema e per il teatro. Le donne che ci lavorano sono tante e capitanate da Alberta (Luisa Ranieri), proprietaria con sua sorella Gabriella (Jasmine Trinca), totalmente diverse e in continua competizione e frenesia per stare dietro alle altre donne del film come le esigenti attrici Alida (Carla Signoris) e Sofia (Kasia Smutniak) ma anche alla costumista premio Oscar Bianca (Vanessa Scalera). Poi c’è la vita al di fuori fatta di ricordi e nostalgia rappresentati dall’ex “ballerina del varietà” Silvana (una stupenda Mara Venier, naturale, divertente e commovente, la amiamo!), ora cuoca/mamma di tutte le altre anime che frequentano la stessa casa e che magari soffrono e sorridono per amore, come i personaggi di Anna Ferzetti (Paolina), Lunetta Savino (Eleonora) e Milena Mancini (Nicoletta). Ozpetek, però, apre con un momento di meta-cinema che ci fa subito sognare perché ambientato su una delle sue meravigliose terrazze romane, nel bel mezzo di un pranzo luculliano dove il regista e le due donne s’incontrano per preparare il film e dove espone le sue idee. Tra commedia e dramma, Ozpetek fa della Sartoria Canova una sorta di confessionale, un rifugio, un tempio dove celebrare le sue muse speranzose, ironiche, rassegnate, ambiziose, esaurite, litigiose, omaggiando allo stesso tempo il grande Cinema e il Teatro e l’eterna diatriba tra i due. È un grande tributo anche a chi lavora dietro le quinte per far si che quella magia si avveri, che quell’unione faccia veramente la forza e che porterà una di loro a trovare la tinta “Diamanti” dopo prove estenuanti. Ma non vogliamo spoilerarvi nulla in merito.
La parte maschile – rappresentata da Stefano Accorsi (regista Premio Oscar), Carmine Recano (Leonardo Cavani), Edoardo Purgatori (Ennio il segretario), Luca Barbarossa (Lucio) e Vinicio Marchioni (Bruno) – da lo spunto per parlare di amori dolci o malati e violenti, ma il “maschio” viene messo all’angolo, quasi come un passatempo, corpi da ammirare, segretari e niente di più mentre il vero potere viene esercitato e portato avanti dalle donne che si muovono su una sceneggiatura – scritta da Ozpetek con Carlotta Corradi ed Elisa Casseri – estremamente corale e di ampio respiro. Si riesce a dare il giusto spazio a tutte loro, mettendo l’accento sull’introspezione psicologica delle due protagoniste, ad introdurre argomenti importanti come le contestazioni giovanili e il femminismo (lasciandoli comunque fuori dalla Sartoria), citando vari maestri del cinema e i fantastici costumi che abbiamo visto nei loro film (vedi Fellini e Pietro Tosi) e dedicando l’intero film a tre diamanti splendenti e indimenticabili del nostro cinema: Virna Lisi, Mariangela Melato e Monica Vitti.
Mufasa: Il Re Leone, di Barry Jenkins
TRAMA
Il film racconta, attraverso Rafiki, la leggenda di Mufasa alla giovane cucciola di leone Kiara, figlia di Simba e Nala, con Timon e Pumbaa che offrono il loro caratteristico spettacolo. Raccontata attraverso flashback, la storia presenta Mufasa, un cucciolo orfano, perso e solo fino a quando incontra un leone comprensivo di nome Taka, erede di una stirpe reale. L’incontro casuale dà il via al viaggio di uno straordinario gruppo di sventurati alla ricerca del proprio destino: i loro legami saranno messi alla prova mentre lavorano insieme per sfuggire a un nemico minaccioso e letale.
Il live-action del 2019, diretto da Jon Favreau, ha incassato globalmente circa 1.6 miliardi di dollari. Ora, le aspettative sul lavoro del premio Oscar Barry Jenkins (“Moonlight”, “Se la strada potesse parlare”) erano e sono veramente altissime. Ma Jenkins sa il fatto suo e, infatti, circondandosi di una squadra fatta solo di numeri uno, ha raccontato alla grande la storia originaria di Mufasa. Ma qual è l’espediente? Molto semplice: Simba e Nala devono temporaneamente allontanarsi dalla Terre del Branco e lasciano la loro cucciola Kiara a Timon e Pumbaa. I due, però, non è che conoscano tutte queste storielle, e quindi ad intrattenere Kiara ci penserà il mandrillo Rafiki che le narrerà la storia di suo nonno Mufasa, rimasto orfano dopo una devastante inondazione. Il leone fu tratto in salvo dal giovane principe Taka e adottato dalla famiglia reale. I due crebbero come fratelli e, in un certo periodo della loro vita, affronteranno un lungo viaggio per sfuggire al malvagio Kiros, capo di un branco di feroci leoni bianchi, per tentare di raggiungere la mitologica Milele, nel mezzo della savana.
Naturalmente, viene ripreso il mito di Amleto di shakespeariana memoria, riletto e rivisto e, una delle cose più avvincenti e affascinanti è proprio la storia di Taka che diventerà Scar. Ovviamente, anche il fatto che Mufasa non sia mai stato sovrano per diritto di nascita ci colpisce tantissimo, ma in realtà in molto punti della pellicola siamo stati colpiti dalla sceneggiatura di Jeff Nathanson, scritta veramente bene. “Mufasa” è un racconto generazionale, di formazione, molto complesso ma narrato in maniera semplice, che tratta temi come l’alleanza, la solidarietà, l’amicizia, il libero arbitrio, l’inclusività, l’emarginazione e la reazione ai soprusi in maniera semplice e diretta, senza perdersi troppo in didascalismi che avrebbero appesantito troppo la sua struttura. I momenti più “pesantucci” sono alleviati dalle canzoni e l’impatto visivo è veramente impressionante, anche se in alcuni punti la CGI non è perfetta (un po’ strano vedere animali che parlano e cantano con mimica umana), siamo comunque su un livello altissimo, soprattutto nelle scene d’azione e combattimento.