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Finalmente, dal 6 febbraio arriva nei nostri cinema la storia di László (Adrien Brody), architetto ungherese di origini ebraiche che, scampato ai campi di sterminio, si reca negli Stati Uniti dove viene ingaggiato da un milionario per progettare un grande centro polifunzionale. Un’opera su un uomo allergico ai compromessi, convinto di aver trovato in America la sua terra promessa e che rifiutandosi di piegare il proprio orgoglio al Capitale precipiterà in un nuovo orrore. Ai Golden Globe si è aggiudicato i premi come Miglior film drammatico, Miglior regista e Miglior attore in un film drammatico ad Adrien Brody. Adesso è candidato a dieci Oscar, fra cui Miglior film, regista, attore protagonista, fotografia, montaggio, colonna sonora e scenografie. Noi l’abbiamo già visto e vi raccontiamo com’è, senza spoiler.

LA TRAMA

Tre decenni di vita dell’architetto ebreo László Tóth

Tre decenni di vita dell’architetto ebreo László Tóth (Adrien Brody), emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dopo essere stato detenuto nei campi di concentramento tedeschi. Gli inizi in America sono difficili, per le necessità economiche e l’impossibilità di poter portare con sé la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsofia (Raffey Cassidy), ma grazie al cugino Attila (Alessandro Nivola), a László viene commissionata la ristrutturazione di una libreria dal milionario mecenate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). Il lavoro di Tóth porta prestigio a Van Buren, che decide di affidargli un progetto mastodontico: la costruzione di un centro culturale e luogo di aggregazione, destinato a ospitare nello stesso edificio biblioteca pubblica, palestra e cappella. Durante il lavoro Tóth incontra molte difficoltà, per le diffidenze verso gli stranieri e per i continui tentativi di alterare il suo progetto originario, ma pur di difendere strenuamente il suo lavoro, arriva a investirvi parte dei propri profitti.

INFO & CAST
Anno 2024
Durata 215 min
Regia Brady Corbet

Cast
Adrien Brody: Laszlo Toth
Felicity Jones: Erzsebeth Toth
Guy Pearce: Harrison Lee Van Buren
Raffey Cassidy: Zsofia
Alessandro Nivola: Attila

LA RECENSIONE

Nazismo e capitalismo, entrambi prigioni che rendono schiavi e infelici

Brady Corbet, già apprezzatissimo attore, firma la sua terza regia di un lungometraggio dopo “The Childhood of a Leader”(2015) e “Vox Lux”(2018), ma stavolta ha centrato il bersaglio alla grande. Prima di tutto, non fatevi spaventare dalla durata monster di 3 ore e 20 minuti perché tutto in “The Brutalist” è ben calibrato e raccontato in maniera magistrale. Il regista ha dichiarato che come fonte d’ispirazione ha preso principalmente le opere degli scrittori Winfried Sebald e Vidiadhar Surajprasad Naipaul, che esplorano specifici avvenimenti e periodi storici attraverso la biografia di personaggi immaginari e ha diviso la sua pellicola in 3 parti. Dopo una Ouverture di presentazione del personaggio principale di László Tóth (Adrien Brody), segue la prima parte che s’intitola “L’enigma dell’arrivo”, poi la seconda “Il solido nucleo della bellezza” e l’epilogo “La prima Biennale di Architettura”. Il nome non è del tutto immaginario visto che si tratta di un vero architetto ungherese ma anche dell’operaio che, armato di martello, danneggiò la Pietà di Michelangelo, nel 1972. Proprio attraverso László, Corbet ci riporta alla memoria il dramma della persecuzione degli Ebrei e l’odio che vige ancora oggi ma lo lega anche alla fatuità del capitalismo, visto inizialmente come chimera, come ancora di salvezza e ricchezza, che poi si rivelerà una prigione, un finto faro che rende solamente schiavi e infelici.

I sogni di László come rivincita contro tutte le sofferenze

László ha una vita difficile anche negli USA, fatta di dipendenza e problemi familiari, cerca di fuggire dal suo passato alla ricerca del sogno americano, trascinato da Harrison Lee Van Buren (la bravura di Guy Pearce è senza limiti in questo film), falso mecenate che si rivelerà un misogino razzista. In questo, forse, l’immagine iniziale della Statua della Libertà vista da un’angolazione strana, sottosopra, doveva essere un presagio non molto buono. Riprendendo i canoni della corrente architettonica del brutalismo, nata negli anni ’50, Corbet li mescola alla brutalità del falso sogno americano, all’illusione del capitalismo mascherato dall’offerta della costruzione fatta a László di un imponente centro culturale, religioso e ricreativo in omaggio alla memoria della madre defunta di Van Buren. L’arte e la voglia di creare qualcosa di bello e unico dell’ungherese si scontreranno con una realtà durissima dedita solo al profitto, al denaro, fatta di incolmabili differenze classiste e neanche la vicinanza di sua moglie Erzsébet (Felicity Jones) riuscirà a sostenerlo fino in fondo. L’uomo scoprirà sulla sua pelle che le ferite del nazismo non possono essere curate dal capitalismo. Corbet, autore anche della sceneggiatura con Mona Fastvold, ci porta per mano verso un finale dolceamaro, dove dopo tutte le sofferenze, almeno i sogni di László, le sue opere avranno la meglio su tutto e la frase “Non importa cosa gli altri provano a venderti, è la destinazione, non il viaggio” racchiude tutta la sua vita.

Un'immensa squadra tecnica e attoriale candidata a 10 Oscar

E’ totalmente inutile parlare della bravura di Adrien Brody, Guy Pierce ma anche di Felicity Jones, Raffey Cassidy e Alessandro Nivola. Sono semplicemente al top. Bisogna invece fare un applauso alla fotografia di Lol Crawley, alla sua terza collaborazione con Corbet. Stavolta, grazie alla pellicola 35mm in formato VistaVision, tutto assume un aspetto “modern retrò” unico e assolutamente monumentale. In post-produzione, comunque, Corbet ha potuto stampare il film in 70mm per la distribuzione, ossia un formato più adatto, a suo dire, a un film epico. Il lavoro al montaggio di Dávid Jancsó è stato massacrante (e ve ne renderete conto a fine pellicola) mentre le scenografie e i costumi rispettivamente di Judy Becker e Kate Forbes sono da Oscar. Per la colonna sonora, il regista ha deciso di affidarla a Daniel Blumberg e voleva che fosse sia minimalista sia massimalista, che rappresentasse il movimento e che fosse creata solo con strumenti dell'epoca. Ora, “The Brutalist” ha già portato a casa 3 Golden Globe (Miglior film drammatico, Miglior regista, Migliore attore in un film drammatico ad Adrien Brody) ed è candidato a 10 Oscar (Miglior film, Miglior regista, Miglior attore ad Adrien Brody, Miglior attore non protagonista a Guy Pearce, Migliore attrice non protagonista a Felicity Jones, Migliore sceneggiatura originale, Migliore fotografia, Miglior montaggio, Migliore colonna sonora originale e Migliore scenografia). Per noi, li meriterebbe tutti, ma aspettando il 2 marzo, gli diamo per il momento le nostre 5 stelle.

Il voto di Cinefily

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